mercoledì 12 dicembre 2012

Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione.


Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione. Bastano tre parole per essere risorsa partecipativa?
Andrea Satta

Le parole hanno significato per quel che attuano.
I nuovi Piani di Zona che ogni Ambito Distrettuale dovrà predisporre sono una grande opportunità e insieme un enorme rischio.
Esistono, infatti, strumenti che appaiono fin dal primo momento funzionali ai processi di pianificazione territoriale, esistono altri che hanno bisogno di una lunga gestazione e spesso rischiano di nascere quando i fratelli sono già troppo grandi e camminano con le proprie gambe. Abbiamo visto come il terzo settore, la cooperazione, ma anche la politica a volte, abbia la capacità di affrontare la contingenza e di produrre risposte immediate ed idonee. Certo sono figli illegittimi (senza legittimità normativa) ma sono pur sempre figli.

Il welfare, parola inglese che mutuiamo con estrema leggerezza, è un sistema complesso, arzigogolato, intrecciato. Il Piano di Zona vorrebbe ordinarlo, rendere il sistema più efficiente, efficace ed economicamente sostenibile. Le tre E sono sempre più presenti e, oggi con la crisi che travolge tutto e tutti, la terza E di economia diviene più che una speranza una minaccia.
Ci sono strumenti, anche se la terminologia sociale e istituzionale può essere fuorviante per i non addetti ai lavori, che dovrebbero fornire il modo per andare ad erogare servizi, interventi, finanziamenti. Il Piano di Zona è lo strumento principe di questo complesso e non sempre comprensibile processo di programmazione locale.
Partiamo dal capire che quando si parla di programmazione non si parla ancora di risultati, quando si parla di progetti non si parla ancora di azioni concrete. Insomma fra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Il mare, nel nostro caso sono i prossimi tre anni 2013/2015, è vasto e l'imbarcazione con cui le istituzioni si propongono di navigarlo, sembra essere un po' stretta e soprattutto priva dell'essenziale carburante finanziario. Infatti proprio la dotazione economica sembra essere, insieme alla scelta delle priorità di intervento, il vero tallone di Achille dell'intero dispositivo normativo. I fondi, di cui i singoli Piani di zona (e in provincia di Pordenone saranno 5) potranno fruire, sono gli stessi con cui si erogheranno i servizi e gli interventi. Per usare una metafora parlamentare sembra che questi Piani di zona servano più a mettere in ordine l'esistente che a creare innovazione. Insomma sono una sorte di legge quadro che raccoglie in alcune aree l'esistente, lo sistematizza e lo rioffre semplificato alla cittadinanza. Se così fosse già si sarebbe ottenuto un notevole risultato. Ma a che prezzo?
Le linee guida, l'apparato normativo, la predisposizione di programmi, di progetti e di processi di governance possono apparire come una mole di lavoro e di impegno abnorme e di cui ancora non si comprende la reale ricaduta sul sistema di erogazione dei servizi.
Si tratta in questa prima fase di processi governance, altra parola che significativamente non ha traduzione in italiano, ovvero di quel complesso sistema di gestione e governo delle leggi, delle norme, relazioni che servono a predisporre un processo partecipativo.
Governance significa, almeno nella declinazione sociale di cui parliamo, coinvolgimento, partecipazione, ascolto, raccolta bisogni, istanze, proposte, in una parola tavoli. La parola oltre evocare un (magro) banchetto ha, sui professionisti del sociale, un effetto rassegnato di grande dispendio di energie e di basso risultato poi sul piano attuativo. Purtroppo, e credo per una cattiva interpretazione dell'assunto partecipativo, i tavoli sono risorse di grande valore che però rimangono ingabbiati in un dispositivo che ha già in se le risposte.
Dopo l'esperienza 2006/2008 del primo Piano di Zona la parola d'ordine rimane ancora l'integrazione Socio Sanitaria. Si tratta di un'integrazione che, nei fatti, stenta a decollare e che rimane speranza prima ancora che progetto. Eppure da essa non si può prescindere in un sistema che a livello locale, regionale e nazionale e, parzialmente, europeo, si sta posizionando su tre macro aree di lavoro: Occupabilità, Sanità e Famiglia. Ciò obbliga il Sistema dei Servizi Sociali (dei Comuni) a confrontarsi non solo nelle aree ad alta integrazione sociosanitaria ma anche nel mercato del lavoro e nella comunità, con tutto quello che significa questa enorme parola/contenitore.

Come tutti gli strumenti anche il PDZ non ha valore etico ma la scrittura, la costruzione, gli indirizzi politici, morali e a volte etici per cui questo strumento è stato scritto sono chiari: intervenire nella ridefinizione del sistema di welfare, intervenire in aree ritenute scoperte o di particolare interesse comunitario e contingente (aree materno-infantile, disabilità, anziani, inserimento lavorativo, famiglia e genitorialità).
C'è da chiedersi se ha valore etico il coltello o il fatto che si usi per uccidere, così c'è da chiedersi se il PDZ debba essere giudicato per quello che è in potenza o per quello per cui verrà utilizzato.
In tutto questo la Cooperazione Sociale? Sembra un po' un convitato di pietra, che però è presente e partecipante ai processi di erogazione dei servizi.
Anche questa come tante altre volte è una questione di significati che vogliamo dare alle parole. Cooperazione non è forse sinonimo di partecipazione?

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